La “morfina” rifiutata in ospedale e la rinascita a casa. Storia di Giusy

La domanda sorge spontanea: “Quanti altri così, in Italia?”. Condanne a morte in ospedale, senza neppure fare il tampone?

AGI >Agenzia Italia

La “morfina” rifiutata in ospedale e la rinascita a casa. Storia di Giusy

di Manuela D’Alessandro – aggiornato alle 07:52 11 aprile 2020

La signora, 79 anni, a detta dei medici di un ospedale lombardo aveva una sola possibilità: ricoverarsi e assumere morfina per lenire il dolore. La figlia: “È stata curata a casa dopo che abbiamo rifiutato di farla restare in ospedale. Ora sta bene”.

La signora Giusy, 79 anni, cardiopatica, a detta dei medici di un ospedale lombardo aveva un’unica possibilità: ricoverarsi e assumere morfina per lenire il dolore e farsi accompagnare a una probabile morte da soffocamento per una polmonite dovuta, forse, al coronavirus. A distanza di due settimane, racconta all’AGI la figlia Alessandra, docente universitaria, Giusy sta bene e ha voglia di farsi al più presto una passeggiata al sole.

È stata curata a casa dal mio medico di base e da un suo collega mio amico, dopo che noi figlie abbiamo rifiutato di farla restare in ospedale, messe di fronte a quell’unica, orribile strada”. Uno dei due dottori, Paolo Gulisano, parla di “sentenza di morte non eseguita“, mentre il medico di famiglia, che preferisce l’anonimato (“Non mi interessa apparire”), giudica un “grave errore quello compiuto al pronto soccorso, soprattutto perché, a livello psicologico, non puoi dare una mazzata così ai familiari senza avere elementi sufficienti“. 

Sabato 28 marzo, le condizioni di Giusy peggiorano dopo che da giorni accusava dei forti dolori al torace e difficoltà a muovere il braccio sinistro. “Pensando, visti i suoi precedenti, a un infarto o a un ictus – dice Alessandra – avevo paura a chiamare un’ambulanza perché temevo finisse tra i pazienti di Covid_19, così, su consiglio di Gulisano, l’ho accompagnata al pronto soccorso portando con me tutta la documentazione relativa ai problemi al cuore». Alla paziente viene assegnato un codice giallo e «la sistemano nel reparto per i sospetti casi di coronavirus, nonostante avessi chiesto di non farlo. Per fortuna io indossavo una mascherina”.

L’esito della radiografia al torace a cui viene sottoposta è di “diffuso ispessimento della trama interstiziale con reperti sospetti per patologia flogistica interstiziale”. Insomma, è proprio il tipo di polmonite diagnosticata ai malati di coronavirus.

“Il medico mi spiega che la mamma probabilmente ha il virus, che la situazione è compromessa e che, se non voglio vederla morire soffocata nelle prossime 48 ore, mi conviene lasciarla in ospedale dove verrà accompagnata dolcemente con la morfina. Chiedo se si può tentare in ospedale una terapia antibiotica, ma la risposta è che è già troppo tardi. Mia mamma però non ha febbre, pressione e battiti sono perfetti, respira bene. Non sono per nulla convinta e chiamo per un consulto i miei medici di riferimento. Tutti e due concordano che me la devo portare a casa. Intanto davanti ai miei occhi, vedo che tre anziani vengono ricoverati, dicono ad alta voce gli operatori sanitari, «con morfina al bisogno», senza un tampone. Nessuno di loro aveva febbre né problemi a respirare. Mentre torno a casa ho davanti agli occhi le centinaia di bare portate via da Bergamo dai militari, persone che, forse, hanno trattato come avrebbero voluto fare con mia mamma, abbandonandole a loro stesse”.

Nella cartella clinica delle dimissioni si legge: “Diagnosi: polmonite interstiziale. I parenti, resi edotti della situazione, prospettate le eventuali complicanze, rifiutano il ricovero assumendosi ogni responsabilità”.  

Tornata a casa, Alessandra, su indicazione dei medici, si mette alla caccia del Plaquenil, uno dei farmaci indicati dai medici e utilizzato negli ospedali per il coronavirus, da aggiungere all’antibiotico e alle maltodestrine. “Tutte pastiglie che si prendono per bocca facilmente e che costano sei euro l’una – spiega. – È questo il valore della vita delle persone? Grazie all’intuito del mio medico di base, a casa avevo anche una bombola per l’ossigeno, uno dei motivi per cui ho avuto il coraggio di portare via la mamma”. Di giorno in giorno, la signora Giusy ha mostrato continui progressi e sembra essere in via di guarigione.

“Magari domani muore per un infarto o altro perché ha un quadro clinico complesso, ma non per il virus che non è stato nemmeno diagnosticato con un tampone. Io ho provato a chiederlo ma mi hanno detto che lo facevano solo ai ricoverati gravi. Qualsiasi cosa accada, potremmo dire che le siamo state vicine e ci dona i suoi baci e il suo sorriso ogni volta”.

“Ad Alessandra – riflette Gulisano che sulla vicenda ha scritto un articolo sul sito www.lanuovabq.it – avevo spiegato subito che non era una lotta, ho sentito fin troppo parlare di metafore belliche. Tutta vuota retorica. Il compito di un medico non è combattere un virus ma prendersi cura di un paziente. Niente guerra, niente armi: farmaci e la vicinanza e la tenerezza di una figlia. La sentenza di morte non è stata eseguita e io tiro un sospiro di sollievo e penso che la medicina ha sempre avuto questo compito: puoi guarire, puoi anche assistere al fallimento, ma puoi e devi curare”. 

Fonte/Link attivo

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Storia di Giusy, strappata alla eutanasia da coronavirus

www.lanuovabq.itPaolo Gulisano, 9/4/2020

Arrivata nel Pronto Soccorso di un ospedale in Lombardia con forti dolori toracici, alla signora Giusy, 79enne cardiopatica, viene diagnosticata una polmonite interstiziale. Alla figlia viene spiegato che, date le condizioni, in ospedale verrà accompagnata alla morte con la morfina: «Non si preoccupi, non soffrirà». Ma seguendo la propria intuizione e il consiglio di un medico amico, la figlia si riporta la madre a casa. E ora dopo dieci giorni non solo è ancora viva, ma sta molto meglio. Un racconto impressionante, in prima persona, che apre uno squarcio su quanto sta accadendo almeno in alcuni ospedali.

Sabato 28 marzo: ricevo una telefonata da una conoscente: “Dottore buongiorno, sono Alessandra. C’è la mamma che non sta bene, volevo chiederle un consiglio…”. La signora Alessandra mi spiega che sua madre, 79 anni, cardiopatica, accusa dolori toracici. Potrebbe essere un problema cardiaco, la signora Giusy ha già dovuto fare due interventi. La figlia però ha un po’ di timore a chiamare un’ambulanza, perché non vorrebbe che la mamma finisse nel calderone dei casi Covid. Le suggerisco di portare lei stessa la mamma in ospedale, portando con sé la documentazione dei precedenti ricoveri e delle visite specialistiche, facendo presente che si tratta di una persona cardiopatica.

Dopo alcune ore, Alessandra mi chiama direttamente dal Pronto Soccorso di uno dei vari ospedali lombardi che lavorano al limite delle proprie possibilità. La voce di Alessandra è spaventata, angosciata, e mi spiega quello che è successo. Dopo aver detto che la madre accusava dolori toracici, questa è stata sottoposta a esame radiografico del torace. Le viene assegnato un codice giallo, indice di una certa gravità. Alla visita tuttavia il medico visitante non riscontra né febbre né dispnea. Poi arriva l’esito dell’RX: “Diffuso ispessimento della trama interstiziale; reperti sospetti per patologia flogistica interstiziale”. La diagnosi è presto fatta: polmonite interstiziale. Una diagnosi che in questi giorni è stata fatta migliaia di volte, purtroppo.

A questo punto Alessandra, che ha compreso quello che sta succedendo, chiede ulteriori chiarimenti. Il medico, con tranquilla professionalità, le spiega che purtroppo la situazione è grave, e che l’età e le condizioni della signora devono far sì che si cominci a preparare al peggio. Il medico tuttavia rassicura Alessandra, dicendole che la madre non soffrirà. Verrà “accompagnata dolcemente” alla morte con il supporto della morfina. Alessandra chiede se non vogliano tentare una terapia antibiotica. “È troppo tardi” è la risposta del sanitario. Ormai non resta che “l’accompagnamento” indolore all’inevitabile esito. Così dicono quei protocolli non scritti previsti per chi è sopra i 75 anni, e qualche volta anche meno, se hai una importante patologia invalidante.

Alessandra mi spiega tutto al telefono, con voce rotta dall’emozione. A mia volta avverto una sensazione strana. “Lei signora mi sta dicendo che ha ricevuto una sentenza di morte per la mamma?”. “Sì, dottore. Cosa devo fare? Mi dica lei”. In quell’attimo non ho esitazioni. “La porti a casa, Alessandra. Firmi e la porti a casa. Me ne prenderò cura io, se vuole. Non le garantisco nulla, se non che me ne prenderò cura e, se dovrà morire, potrà farlo con lei accanto”.

Alessandra segue il mio consiglio. Nella dimissione dal Pronto Soccorso, si possono leggere queste righe: “Diagnosi: polmonite interstiziale. I parenti resi edotti della situazione, prospettate le eventuali complicanze, rifiutano il ricovero assumendosi ogni responsabilità. Esito: rifiuto del ricovero.”

La signora Giusy torna dunque a casa, amorevolmente assistita da sua figlia. Le prescrivo la terapia, con un mix di farmaci che forse non saranno ancora ufficialmente adottati negli ospedali previ trials clinici e studi in doppio cieco, ma qui c’è da salvare una vita, e non ho dubbi che occorra tentare.

Passano i giorni, e la signora Giusy migliora ogni giorno di più. Se fosse rimasta in ospedale, dopo 48 di “accompagnamento dolce” sarebbe morta, da sola, senza più vedere nessuno dei suoi cari, come successo a tantissime altre persone. Alessandra non vuole che finisca così, e io nemmeno.

Certo, in questo difficilissimo momento, gli operatori sanitari stanno facendo un’esperienza professionale difficile: quella di vedere i propri sforzi e il proprio impegno vanificati da una malattia nuova e difficile da curare, ma il compito del medico può essere solo quello di supporto, accompagnando i pazienti sino alla fine? Io credo di no. Così comincia questa avventura: salvare la signora Giusy da una morte programmata. Dico subito alla figlia che non è una lotta, una battaglia. In questi tempi ho sentito fin troppo usare metafore belliche. La trincea, la prima linea, il nemico… Tutta vuota retorica.

Il compito di un medico, il mio compito, non è combattere un virus: è prendermi cura di una persona. È fare in modo che possa riacquistare la salute, che possa respirare normalmente, che si rallenti la replicazione virale, che non salga la febbre. Niente guerre e niente armi: solo farmaci, ossigeno (finché dopo pochi giorni la signora Giusy satura talmente bene da non averne più bisogno), solo la vicinanza e la tenerezza di una figlia, che le rimbocca le coperte, che la aiuta a mangiare. Eh sì, perché passano i giorni e Giusy sta sempre meglio: i parametri sono tutti buoni.                  

Oggi sono passati dieci giorni, e la signora Giusy è in piedi. Vorrebbe anche andare a fare una passeggiata al sole, ma la figlia le spiega che è ancora proibito. Alessandra la guarda con tenerezza: la sua mamma è ancora viva. La sentenza di morte non è stata eseguita. E io tiro un sospiro di sollievo, e penso che la Medicina ha sempre avuto questo compito: puoi guarire spesso, puoi anche assistere al fallimento, ma puoi e devi curare, sempre.

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Ha destato molto interesse la testimonianza del giovane manager italiano di una fra le più grandi banche d’affari mondiali dalla quale, nel 2005, si è licenziato perché si è rifiutato di vendere derivati che scommettevano sulle morti di aviaria. In questo link l’intervista rilasciata alla TV La7 trasmissione “Otto e mezzo” del 15-3-2012: (a 14,40′ dall’inizio: derivati su aviaria).

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Bill Gates ammette:
«I vaccini servono per diminuire la popolazione».

lospecchiodelpensiero /

Si sa che fra i complottisti gira l’idea che esistano dei “mondialisti” cattivi cattivi che, fra i loro scopi, hanno quello (udite udite!) di ridurre la popolazione mondiale.

E il motivo sarebbe semplice: questi cattivoni hanno tutto: denaro, potere, controllo dell’informazione, ecc, tranne una cosa: i numeri. Sono molto pochi, in confronto agli altri, che sono enormemente di più. E allora? Allora l’idea sarebbe quella di ridurre la popolazione mondiale, tramite guerre, carestie, terremoti, inquinamento, vaccini (vaccini? Sì, vaccini!) pessima alimentazione, ecc.

Chissà se è vero. Però è divertente vedere Bill Gates (sì proprio lui, il sig.Windows) che dice, testualmente, che per ridurre le emissioni di CO2 causato dall’uomo bisogna agire sui fattori che lo producono:

  • numero di persone,
  • quantità di consumi che queste persone fanno,
  • energia unitaria per consumo.

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Insomma, un approccio matematico. E analizzando le singole voci, partendo dalla eccessiva presenza di esseri umani (questo bestiame ingombrante, ma perchè sono così tanti?) dice testualmente: «Lavorando bene, con i servizi sanitari, la contraccezione e i vaccini potremmo forse ridurre la popolazione del 10-15%».

Ma come? La sanità e i vaccini servono per diminuire la popolazione? Avrò capito male? … No, no, l’ha proprio detto, c’è il video su youtube che lo documenta!

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